Yara, un delitto senza colpevoli
Il 26 novebre 2010 Yara Gambirasio, una ragazzina di 13 anni, esce di casa. Il freddo, a Brembate Sopra, paesino alle porte di Bergamo, già da qualche settimana sì è fatto più pungente, ma c’è da fare una piccola commissione per la sorella, portare un registratore alla palestra. Dista solo pochi metri da casa, e anche se è buio ci sono case ovunque, lungo il percorso. Per lo più villette monofamiliare, lavoratori benestanti che proteggono la loro sicurezza con impianti d’allarme e la privacy con folte siepi.
Yara cammina veloce, entra in palestra, parla con una sua amica. Un testimone riferirà di averla vista uscire, ma nessuno riesce a stabilire con esattezza dove. Ci sono due ingressi, uno più vicino alla strada che la riporta a casa, solitamente chiusa, e l’altra in via Locatelli
Doveva essere una “missione” da pochi minuti, una mezz’oretta al massimo. Ma le ore passano, e di Yara nessuna notizia. Viene immediatamente lanciato l’allarme, ma occorre attendere almeno fino al giorno seguente per vede in campo i carabinieri in forze.
La nebbia che su Brembate avvolge la sorte di Yara potrebbe diradarsi in pochi istanti. Forse inaugurata da qualche amministrazione locale tronfia di aver eretto una barriera contro l’illegalità che attenta alla sicurezza dei brembatesi, c’è infatti una telecamera di sicurezza che monitora l’accesso alla via principale, quella di massimo scorrimento. Quella che chiunque entra e esce da Brembate transitando dalla palestra non può non incontrare sulla sua strada. Una sorta di Minosse posto a guardia della nostra tranquillità. Peccato che da mesi “minosse” non funzioni, colpito da un fulmine di un temporale estivo prima e dalla burocrazia di una compagnia di assicurazione poi, che in quella fine di novembre 2010 rende ciechi gli investigatori. Costretti quindi ad affidarsi, almeno all’’inizio, a strumenti poco innovativi.
Nelle nebbia di Brembate, con Yara che non risponde al telefono (sarà spento dalle 18.50, con un ultimo messaggio alle 1844 ad una sua amica), i genitori di Yara si precipitano dai carabinieri, certi che qualche cosa sia andata storta. Yara non è bambina da disubbidire alle regole, non ha grilli per la testa. Doveva tornare a subito a casa, se non l’ha fatto è stata trattenuta contro la propria voltontà.
Le ricerche partono sostanzialmente il giorno successivo. Dopo una breve visita al campo sportivo nessuno sa bene dove cercarla. Gli unici a non avere dubbi sono i cani utilizzati dai carabinieri per le ricerche, che puntano dritto ad un grande centro commerciale in costruzione. Un’immensa cantiere, in più punti senza recinzioni, in cui a volte i ragazzini del posto andavano a giocare.
Dall’autopsia effettuata sul corpo della bimba in realtà sappiamo che Yara, il sabato mattina, giace già senza vita, abbandonata in un campo a Chignolo D’Isola a dieci chilometri dalla sua abitazione e, ironia della sorte, a poche centinaia di metri da un campo della Protezione Civile.
Ma in questo sabato 27 novembre tutti gli sforzi degli investigatori convergono sul cantiere. La certezza che serpeggia, tra gli addetti ai lavori, è che si stia cercando un cadavere. Ai più scettici che non credono alle capacità olfattive dei cani viene opposta una certezza granitica che sarà il leit motive di tutta l’indagine: se i cani portano al cantiere, Yara al cantiere c’è stata. Già, perché di Cani molecolari trattasi, in grado persino di percepire la traccia olfattiva di una persona che sale in macchina e percorre chilometri prima di giungere a destinazione. Una convinzione che non accenna a traballare neppure quando, come detto, il corpo della bimba viene ritrovato, per caso, da un hobbista che faceva volare il suo modellino in un campo. Nel frattempo, quindi, i carabinieri si chiudono nel cantiere, tralasciando qualunque altra traccia. Arrivano strumenti d’indagine d’avanguardia, scanner in grado di scrutare il sottosuolo, di violare il cemento alla ricerca di un corpo. Niente: solo i cani continuano a regalare soddisfazione agli investigatori, portandoli in una stanza vuota, adibita a deposito per gli elettricisti. “Yara è stata qui”, esclamano fiduciosi. Peccato che della bimba non vi sia traccia alcuna, neppure un capello. Gli investigatori “brancolano del buoi”, o, per meglio dire, nel cantiere. Ma proprio mentre migliaia di volontari la cercano in tutte le valli, spunta un super testimone in grado, almeno in apparenza, di dare una svolta alle indagini. Un ragazzino che, come tutti i super testimoni da Avetrana a Garalasco a Cogne, salta fuori a beneficio di telecamere e giornalisti: un b el ragazzo fotogenico, 19 anni, vicino di casa di Yara che non si sottrae alle domande dei tanti giornalisti: “Ho visto due uomini in macchina parlare con Yara”. E giù a descrivere auto e sospetti. Salvo poi, qualche giorno dopo e dopo molte energie sprecate, essere sconfessato dagli investigatori.
Passano i giorni, dal cantiere non esce nulla. Immancabile arriva invece una lettera anonima, invita a cercare Yara nel complesso sportivo. Lì sarebbe entrata, mai uscita. SI racconta di ragazzine guardate con troppa “attenzione” se non addirittura molestate da un personaggio ben noto. L’abitazione del custode (l’unico che aveva la chiave del cancello posteriore della struttura da dove si pensava Yara potesse essere uscita) viene passata al setaccio. Nessun risultato, solo una perdita di tempo.
Gli investigatori cominciano a mostrare segni di nervosismo. I genitori si chiudono in un doloroso silenzio stampa, il sindaco emette un’ordinanza per allentare la morsa dell’informazione su Brembate. Ma il tarlo del dubbio ha già cominciato a corrodere chi siede nella stanza di bottoni, e ai carabinieri viene affiancata la la polizia con dei reparti scelti. Il coordinamente, se esiste, è stato pensato in maniera da dimezzare le forze. Con i primi sempre a cercare a testa bassa nel cantiere e i secondi, appena arrivati, a battere la pista della criminalità organizzata. La ‘Ndrangheta, per la precisione, presente (ma chi l’avrebbe mai detto) in alcune aziende che avevano ottenuto appalti nel mega cantiere di Mapello.
Si indaga in tutta Italia, si passano al setaccio le vite delle persone accanto ai genitori di Yara, qualcuno comincia persino a sospettare che dietro la scomparsa della bimba ci sia davvero una vendetta della malavita, e che il padre non parli per paura di ritorsioni sul resto della famiglia.
Spunta un nuovo testimone, una guardia giurata con cagnolino al seguito, ritenuta credibile dai carabinieri, che ricorda due uomini discutere animatamente la sera della scomparsa di Yara proprio fuori dalla scuola. Nessun riscontro, niente di fatto.
Poi, improvvisamente, un colpo di scena, quello che sembra l’epilogo del delitto: un marocchino, tale Fikri, con un’operazione degna dell’intelligence americana, viene “beccato” su un traghetto che da Sanremo porta a Tangeri, mentre cerca di scappare. Contro di lui una intercettazione che non lascia spazio a dubbi: “Allah perdonami, non l’ho uccisa io”. Fikri ha lavorato al cantiere, con grande soddisfazione dei cani molecolari, e per di più è uno straniero (e qui i soddisfatti sono in molti). Con un colpo di genio e di bravura gli investigatori convincono il comandante della nave, già oltre le acque territoriali, a tornare in porto e a consegnare Fikri ai carabinieri. Tutto bene se non fosse per due piccoli particolari:
- Nessuno pensa a sequestrare anche l’auto con la quale Fikri sta “scappando”
- La traduzione è clamorosamente sbagliata. Le vere parole che Fikri al telefono con la fidanzata ha pronunciato sono state :”Dio fa che risponda”.
Per stabilirlo, a scanso di equivoci, ci sono voluti sette esperti. Ma, a scanso di equivoci, risulta essere ancora indagato per favoreggiamento anche se il pm Ruggeri ha chiesto per lui per ben due volte l’archiviazione.
Nel frattempo, per puro caso, il corpo della bimba viene ritrovato da un appassionato di modellismo. Cento metri circa dalla strada, a pochi passi da dove era stato allestito un campo della protezione civile con i volontari che la cercavano, alle spalle di capannoni industriali e persino di una discoteca. Arrivano (finalmente) gli investigatori, rimuovono il corpo della bambina, e poi dopo poche ore tanti saluti, campo libero per tutti, telecamere, turisti e curiosi. Sembra Avetrana 2. Salvo poi accorgersi che, la scena del delitto, da manuale dovrebbe essere preservata a lungo, al fine di cercare indizi e particolari, e tornare, dopo più di 24 ore e un imprecisato numero di contaminazioni, a transennare l’area su richiesta del medico incaricato dell’autopsia.
I mesi che seguirono il suo ritrovamento, le polemiche e le false piste possono essere ben raccontate dalla prima (e unica) conferenza stampa organizzata dalla Procura di Bergamo. Con il Procuratore aggiunto che, alla corretta domanda di un giornalista che gli chiedeva conto del mancato sequestro dell’area rispondeva con un laconico “Perché non l’ha fatto lei? L’unica risposta, ad una domanda peraltro non posto, che giunge dalla conferenza stampa della Procura è un disegno ad opera del Procuratore aggiunto che polemizza con la riforma dei giudici ad proposta da Berlusconi. Sigh!
Mesi che trascorrono in attesa degli esiti dell’autopsia e che portano alla scoperta, finalmente, di una traccia. Dna appartente ad un maschio bianco, l’assassino di Yara, che l’avrebbe lasciata agonizzante, credendola morta, dopo un fallito tentativo di violenza sessuale. L’indagine sembra ad una svolta, i cani molecolari possono finalmente riposarsi e cercare (senza alcun successo) Roberta Ragusa, nel frattempo scomparsa senza lasciare traccia. La Procura ordina una sorta di censimento del Dna dell’intera valle, con oltre 18 mila campioni comparati. Trascorre altro tempo e finalmente un risultato, un riscontro sia pure parziale: si arriva a Gorno, Valle del Riso. Non del suo assassino, sarebbe il dna sugli slip e i leggings di Yara ma del padre. Un uomo deceduto nel 1999 e il cui profilo genetico è stato estratto dalla marca da bollo della sua patente e da un francobollo su una cartolina. Aveva due figli, ma i loro Dna non coincidono con quello «ignoto». Da qui la pista del figlio illegittimo: un figlio che però non si trova.
Un ex collega di lavoro dell’uomo (la cui salma nel frattempo è stata riesumata) sbuca dal tempo per raccontare confidenze raccolte a suo tempo dall’autista che, indicando una donna, avrebbe ammesso di averla messa incinta. Del figlio illegittimo, nonché assassino di Yara, però, nessuna traccia.
Gli investigatori si trasformano in esperti di gossip, perlustrano la valle in cerca di figli illegittimi, di racconti e maldicenze sulle donne del paese. Ma qualcosa non torna. Paesi piccoli, dove anche il più piccolo venticello di sospetto si trasforma in una tempesta, ancora nulla emerge. La madre, ammesso che sia ancora in vita, di sicuro sa che il proprio figlio (di circa 40 anni) è l’assassino di Yara e tace. Con lei tutti quelli che non potevano non sapere di una gravidanza fuori dal matrimonio e che, come detto, in quegli anni costituiva una vera e propria vergogna.
Errori investigativi, ritardi nelle indagini, divisione tra carabinieri e polizia, divisi tra cantiere e ‘Ndrangheta, troppa fiducia (lo dice infine anche il pm Ruggeri, titolare delle indagini) nei famigerati cani molecolari.
L’unica certezza è che a distanza di 2 anni e mezzo, il delitto di Yara Gambirasio è ancora impunito.