Il delitto di Chiara Poggi Tra indagini lacunose e accuse non provate
Il 13 agosto del 2007 Chiara Poggi ha 26 anni e una vita felice, o almeno così sembra. Vive con i genitori e il fratello in una villetta a Garlasco, in provincia di Pavia: una di quelle villette con giardino, cancello e siepe sempre ben curata per proteggere la sacrosanta privacy prima ancora che la sicurezza. Garlasco è un paese tranquillo, pochi casi di cronaca nera, pochi i balordi e tutti ben conosciuti dai carabinieri. La gente che vi abita forse non è ricca ma di sicuro non se la passa male, e i loro figli, quelli che hanno voglia ovviamente, studiano tutti e hanno un pezzo di carta in tasca.
Chiara è una bella ragazza, sul suo pezzo di carta c’è scritto 110 e lode in Economia e fa la stagista a Milano, nella sua rubrica ci sono pochi numeri di telefono, quelli degli amici di sempre, delle serata nelle tavernette delle ville o nelle paninoteche e, di tanto in tanto, alle “Rotonde”, discoteca un tempo famosa oggi ormai dimenticata.
Tra i numeri c’è anche quello di un ragazzo per lei speciale. Si chiama Alberto Stasi, è più piccolo di due anni e studia Economia alla Bocconi: un bel ragazzo senza grilli per la testa, di buona famiglia, qualcuno vede in lui una somiglianza con Harry Potter (lo dicevano anche di Raffaele Sollecito) e ormai sono fidanzati da quattro anni, “in casa”, uno di quei rapporti destinati presto o tardi a sfociare in matrimonio. Prima la laurea, poi il lavoro, infine la villetta con giardino magari vicino ai genitori, così quando arrivano i bambini “i miei ci possono dare una mano”…
Una coppia tranquilla, Chiara e Alberto, mai un litigio in pubblico, mai una scenata. Ognuno con i propri spazi, custoditi gelosamente, soprattutto Alberto che è appena tornato da una vacanza-studio in Inghilterra. Ma dei segreti di Alberto parleremo tra poco.
La loro routine è perfetta, il loro menage scandito da appuntamenti fissi e pianificati: l’ultima volta che si vedono è domenica 12 agosto. Chiara invita Alberto a cena, sono soli: i genitori della ragazza sono in vacanza, la casa è tutta per loro. Alberto però non vuole fermarsi a dormire, lo imbarazza dormire nel letto dei genitori di Chiara e l’indomani lo aspetta una giornata pesante, di studio. Tanto qualche giorno partiranno per una breve vacanza in Liguria, e il tempo per stare insieme non mancherà. Così, verso l’una di notte, saluta Chiara e torna a casa.
L’indomani mattina alle 9 Alberto fa il consueto squillo per salutare la fidanzata: non ottiene risposta e così si mette a studiare. Passano tre ore, e Alberto ci riprova: quattro telefonate tra le 12 e le 13.30 su cellulare e telefono di casa. Chiara è sola in casa, nel deserto di ferragosto, ma Alberto non deve essere un ragazzo né geloso né tantomeno apprensivo se decide solo poco prima delle due di andare a casa della fidanzata a capire per quale motivo lei non gli risponda.
Sono le 13.49 del 13 agosto 2007, uno dei pochissimi punti fermi di questa storia. Alberto chiama i carabinieri, da qualche minuto è arrivato a casa Poggi e ha trovato la sua fidanzata in un lago di sangue, ci vuol poco a capire che è morta. “ Ho trovato una persona uccisa in via Pascoli, correte”, dirà al 118. Già, dice proprio così, Alberto. Una persona uccisa, quasi parlasse di un’estranea. Ma questo è solo un dettaglio.
Arrivano i carabinieri, cominciano le indagini. Sulla porta non c’è segno di scasso, nessun segno di effrazione. Quando il suo assassino ha suonato alla porta dei Poggi, tra le 9.00 e le 11.30 Chiara stava facendo colazione: indossava un pigiamino estivo, era sola in casa, e gli ha aperto la porta solo perché lo conosceva bene, altrimenti non si sarebbe mai mostrata così. Conosco bene quei paesi, dove la forma è sostanza e le voci corrono molto veloci, una regola che soprattutto le ragazze imparano presto. Senza contare che quando parliamo di Garlasco non dobbiamo certo pensare a Gardaland: per quanto tranquillo il paesino non è certo immune da reati e nel già citato deserto ferragostiano possiamo immaginare che una ragazza peraltro seminuda possa aprire la porta ad una persona che non sia più che conosciuta? Per favore, non scherziamo. No davvero.
Chiara quindi apre la porta al sua assassino, che la colpisce immediatamente al volto con un oggetto di metallo simile a un martello o a una picozza (tanto per cambiare l’arma del delitto non è mai stata trovata) e infierisce su di lei quando ormai è già a terra con altri due colpi, mortali, alla nuca. Prima di soccombere Chiara riesce solo a trascinarsi fino alla scala della taverna, da cui cade. E lì sotto, Alberto prima e i soccorritori poi, trovano il suo corpo senza vita.
Una scena agghiacciante, con sangue ovunque, che Alberto osserva da lontano. Il giovane fidanzato riesce non solo a resistere alla tentazione di correre per le scale verso la sua fidanzata ma anche ad evitare accuratamente le pozze di sangue sparse per la casa: le scarpe che consegna ai carabinieri che lo interrogano per tutta la notte sono immacolate. Un dubbio comincia ad insinuarsi nella mente degli investigatori e piano piano anche in quella della famiglia di Chiara che prende le distanze in maniera netta da Alberto seduto accanto a loro solo qualche giorno prima in occasione del funerale di Chiara.
Ci sono delle immagini che, volenti o nolenti, finiscono con il legarsi indissolubilmente ad un delitto. In questo caso sono due: la prima è una fotografia di Chiara sorridente accanto alle due cugine, Stefania e Paola Cappa, altrimenti note come le “gemelle K”, posta da queste ultime a beneficio di giornalisti e telecamere sul cancello di casa Poggi. Ci vuole poco, ai professionisti dell’informazione, per scoprire che si tratta di un fotomontaggio piuttosto grossolano, fatto in maniera frettolosa, per qualcuno motivato dalla voglia di portarsi a casa 5 minuti di popolarità accreditando un legame, con la povera cugina, peraltro neanche tanto forte. Comunque sia, non ha importanza, perché pochi giorni dopo un’altra foto relega nel dimenticatoio quella delle gemelle “K”. Corriere e Repubblica sono i primi a pubblicare un’immagine di Alberto Stasi che lo allontana da quella del biondino stile “Harry Potter” e lo avvicina al serial killer Ted Bundy: un primo piano strettissimo degli occhi azzurri di Stasi. Guardate e giudicate da voi.
Chi non ha dubbi è la Procura di Vigevano, che indaga Stasi con l’accusa di omicidio volontario. E’ il 20 agosto 2007 i carabinieri sequestrano la sua bicicletta bordeaux (una testimone parlò sin dall’inizio di una bicicletta appoggiata al muro di cinta della casa di Chiara) e il suo computer, frugando in ogni angolo della casa. Da questo momento Alberto Stasi sarà l’unico sospettato.
Il giallo sembra ad una svolta, in casa di Chiara l’assassino ha lasciato parecchie tracce: i carabinieri del Ris di Parma hanno trovato tre impronte di scarpa da ginnastica intrisa di sangue e resti ematici nelle tubature della doccia del bagno a pian terreno. Ma occorre fare altre verifiche, controllare l’alibi di Alberto, verificare i suoi spostamenti. Qualcosa si inceppa, le perizie vengono affidate in ritardo, i mass media premono sugli investigatori. Persino il Corriere della Sera, di solito molto cauto in queste situazioni, affida ad un suo cronista di punta il ritratto di Rosa Muscio, pm titolare delle indagini. Ne esce il quadro di un giudice poco abituato a chiudere le indagini, persino di fronte alle confessioni degli imputati. Sarà, ma questa volta la Muscio sorprende tutti e il 24 settembre ordina il fermo di Stasi con l’accusa di omicidio volontario. La prova regina consiste nella presenza del dna della vittima sui pedali della bicicletta in sella alla quale Alberto sarebbe fuggito. Ma per la Procura, questa mossa, si rivelerà un autogol clamoroso. Neanche quattro giorni dopo, il 28 settembre, il gip Giulia Pravon dispone la scarcerazione di Alberto. Niente prove, solo “suggestioni accusatorie”.
La strada, per l’accusa, è in salita, e non è certo aiutata dalle perizie. Persino quella sul computer di Alberto è controversa, messa più volte in discussione, nonostante sia fondamentale per le indagini essendo l’unico alibi del ragazzo, che sostiene di averci lavorato per tutta la mattinata per la sua tesi. Trascorre un anno, ma la Procura non molla: il 3 novembre 2008 chiede il rinvio a giudizio di Stasi. Abbandonata la bici il punto forte dell’accusa sono le scarpe immacolate a dispetto di una scena del crimine che era impossibile da percorrere senza sporcarsi.
Manca ancora un movente, oltre all’arma. Ma poche settimane, alla fine di dicembre, ecco che Alberto Stasi viene indagato per una nuova ipotesi di reato: detenzione e divulgazione di materiale pedopornografico. Nel suo pc ci sono decine di file a sfondo sessuale che coinvolgono minorenni.
Per l’accusa sarebbe questo un probabile movente: Chiara avrebbe scoperto “il vizio” di Alberto e, inorridita, avrebbe minacciato di lasciarlo e di raccontare tutto. Il 23 febbraio 2009 comincia l’udienza preliminare davanti al giovane gup Stefano Vitelli. I legali di Stasi scelgono il rito abbreviato; il 9 aprile arriva la richiesta di condanna: 30 anni di carcere per Stasi, “Colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, ha ucciso per una lite avvenuta la sera precedente”.
Il 30 aprile 2009 arriva la conferma di quanti, in questi anni, hanno sostenuto che le indagini erano state svolte in maniera approssimativa. Il Gup infatti decide di disporre ben 4 nuove perizie sui punti oscuri dell’inchiesta, partendo proprio dal presupposto che le indagini sono state «lacunose». La sentenza arriva pochi giorni prima del natale 2009: Alberto Stasi, difeso dal principe del Foro Angelo Giarda, viene assolto. Decisiva la perizia informatica che dimostra come Stasi stesse lavorando a casa sua alla tesi di laurea durante il probabile orario del crimine, tra le 9.12, quando viene disattivato l’allarme di casa Poggi, e le 9.35. Tutti gli altri indizi vengono valutati dal gup come «contraddittori o insufficienti».
Trascorrono altri due anni, e si arriva all’8 novembre 2011, in Corte d’Appello. Il pg Laura Barbaini chiede 30 anni di carcere o, in subordine, la rinnovazione del dibattimento ma già il 6 dicembre 2011 la Corte d’Assise d’appello conferma l’assoluzione. Nelle motivazioni, i giudici osservano che la realtà «è rimasta inconoscibile nei suoi molteplici fattori rilevanti, la maggior parte dei quali sono condizionati unicamente dal caso». Parte civile e procura generale presentano un ricorso in Cassazione sostenendo che il verdetto in secondo grado esclude una serie di dati facendoli passare come «mere congetture o supposizioni personalistiche».
Già, una realtà inconoscibile per i giudici della Corte d’Appello ma non per quelli della Cassazione, che lo scorso 18 aprile dispongono l’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Assise. Insomma, processo da rifare.
Nel frattempo, l’unica certezza che riguarda Alberto Stasi, è quella legata alla vicenda delle foto e dei filmati pedopornografici. La Corte D’appello di Milano ha infatti confermato la condanna a 30 giorni di reclusione, convertiti in una pena pecuniaria di 2.540 euro, per l’accusa di detenzione di materiale pedopornografico. In primo grado, la condanna era stata emessa dal tribunale di Vigevano e ora è stata confermata dai giudici d’appello milanesi. L’accusa di detenzione si riferisce a 17 frammenti di immagini trovati nel pc del giovane. I giudici hanno anche confermato l’interdizione per Stasi «in perpetuo da qualunque incarico di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori».
Contro questa sentenza Albero Stasi ricorrerà ovviamente in Cassazione, ma poco importa.
A questo punto resta solo una domanda: chi ha ucciso Chiara Poggi?