Il mio lavoro
I primi passi nel mondo del lavoro li muovo di corsa, nel 1986, trasportando libri da un piano all’altro della libreria Puccini di Corso Buenos Aires a Milano nel periodo della “scolastica”, ossia da settembre a ottobre. La paga era ottima, 5000 lire all’ora, e lavorando una media di 10 ore al giorno si poteva guadagnare in meno di due mesi quanto occorreva per portare fuori la fidanzatina, pizza e cinema incluso, per diversi mesi. Il direttore, Clemente Zuccotti sapeva che in quelle poche settimane si giocava la partita decisiva per il fatturato dell’intero anno, e ti perdonava tutto tranne la mancata vendita di un libro. Era capace di controllare tutte le liste che preparavamo e di recuperare un volume introvabile anche a costo di ribaltare la libreria. Qualcuno di noi arrivò a ipotizzare che la notte stampasse personalmente i libri più rari, ma di questo non c’è prova….
Di quell’esperienza, ripetuta per diversi anni, tra i tanti ricordi che mi affollano la mente almeno due sono impressi in maniera indelebile nella memoria: il giorno in cui si presentò in libreria la segretaria di un manager con un assegno in mano e chiese “7 milioni e mezzo di libri” per arredare l’ufficio del nuovo capo (con immensa gioia il Clemente si liberò di un numero spaventoso di “invenduti” tra cui “Signori miei” di Wanna Marchi e “Il Pendolo di Foucault” di Umberto Eco). Il secondo episodio invece fu quello che vide protagonista una elegante signora estrarre nell’affollatissima libreria un pezzo di carta igienica con scritti a matita i titoli di alcuni libri di testo per la figlia. Il mio collega, invece di servirla, si limitò a chiederle “dove le fosse venuta l’ispirazione”. Il buon Clemente, mai come in quel momento massima espressione del detto “pecunia non olet” si precipitò a servirla riservando a noialtri commessi esterefatti una breve ma significativa occhiata di disapprovazione.
Sempre di corsa, ma questa volta nel giornalismo i primi passi li muovo nel 1987, a nemmeno vent’anni. Scopro infatti che a Telenova cercavano giovani con tanta voglia di lavorare e poca di guadagnare (una caratteristica che col passare degli anni ho riscontrato in quasi tutte le aziende con cui ho avuto a che fare) e in men che non si dica mi ritrovo con un microfono in mano al seguito di un operatore. Un ragazzone grande e grosso, con una faccia simpatica e aperta, tale Riccardo Recchia (nipote del grande regista Beppe) destinato al pari dello zio a divenire in pochi anni uno dei più bravi registi Tv italiani (da Striscia a Zelig, giusto per citare qualche esempio). Insieme, dovevamo realizzare un documentario sulle bande giovanili, raccontare come stavano cambiando i giovani, girare nei loro locali e ritrovi e, sfruttando la nostra giovane età, riuscire a coglierli nel loro modo di essere più naturale.
Certo, passare inosservati non era facile. Negli anni ’80 la televisione era una roba mica da ridere, una troupe era composta, oltre dal giornalista, da un operatore che reggeva una telecamera immensa, da un assistente con registratore a spalla e il faretto e spesso da un autista. Telenova, che almeno in quello non badava a spese, usava imponenti Volvo station wagon per gli spostamenti: passare inosservati era impossibile, ma i ragazzi in qualche modo parevano non farci troppo caso. Ancora lontani gli anni del divismo d’accatto e dell’esibizionismo selvaggio, sottoprodotto (in)desiderato del Grande Fratello e dei programmi di Maria de Filippi.
Le notti le trascorrevamo nelle discoteche (indimenticabili le spaghettate a casa di Riccardo alle 2 di mattina quando improvvisamente si materializzavano anche segretarie e assistenti al programma) mentre di giorno giravamo nelle piazze e nei giardinetti dove le varie bande si ritrovavano; punk, metallari, gli ultimi instancabili paninari ormai ridotti a macchiette, modaioli dell’ultima ora ma anche skinheads e frequentatori di centri sociali, spesso gli uni a caccia degli altri. Riccardo non era certo uno che si faceva intimidire e aveva una sorta di fiuto per le situazioni pericolose. Fu proprio durante uno dei nostri reportage che ci imbattemmo in un vero e proprio assalto da parte di un gruppo di “teste rasate” ai danni di 4 ragazzi, in una stazione della metropolitana. Sembrava di assistere ad una scena del film “I guerrieri della notte”, urla e botte da orbi , con i due gruppi di ragazzi che si fronteggiavano anche con catene e bastoni. Dieci minuti di terrore tra una folla di spettatori allibiti e impotenti. La nostra troupe, miracolosamente illesa a parte qualche spintone, con in tasca un documento che, da solo, valeva tutte le notti trascorse in bianco. Immagini forti che testimoniavano come il movimento skinheads fosse presente e attivo nella realtà milanese, forte di centinaia di simpatizzanti pronti e bendisposti a menare le mani, eventualità alla quale si preparavano, come ebbe modo di raccontarci uno dei ragazzi, in veri e propri “campi di addestramento” al confine con la Svizzera.
In tasca avevamo questo documento, e in tasca ci restò. Troppo forti le immagini per Telenova, l’emittente di proprietà dei Paolini, per poterle mandare in onda. Per me fu una delusione enorme (ancora oggi tutte le volte che incontro Riccardo ne riparliamo) e decisi di mollare Telenova e tentare altrove di realizzare il mio sogno di diventare giornalista.
Nel 1988 il Corriere della Sera stava per varare nuove pagine dedicate a Monza e Brianza, compresa ovviamente la zona di Sesto San Giovanni. Era una sperimentazione nel tentativo di strappare lettori a Il Giorno, in quelle zone da sempre molto letto, e per me un’occasione per farmi le ossa, per imparare il mestiere. L’occasione si presentò quando a mio padre, già in pensione, venne offerto di coordinare la nuova iniziativa gettando le basi per una futura redazione distaccata che coprisse tutti i comuni dell’hinterland a est di Milano, Sesto, Cinisello, Cologno fino ovviamente a Monza. Fu quello un periodo di grande emozione, di esperienze meravigliose e di preziosi insegnamenti che ancora oggi accompagnano la mia vita professionale e non solo. Sempre “gratis et amore dei”, quasi di nascosto non potendo certo figurare negli organici del Corrierone a 19 anni, cominciai a “battere” ospedali, caserme, posti di polizia, creandomi una fitta rete di informatori e curando con grande attenzione alcune fonti che negli anni si rivelarono preziose di notizie ma anche di lezioni di vita. Imparai l’importanza di andare a cercare le notizie sul posto e quindi di verificarle sempre, a non usare il telefono per il “giro di nera” se non in casi eccezionali dal momento che il piantone di una caserma, che pure in quel momento sta bruciando, non ti dirà mai altro che “nulla di nuovo, nulla da segnalare”. Imparai l’importanza di conquistarmi le persone non tradendo mai la fiducia che riponevano in me, sapendo ascoltare i racconti dei vecchi poliziotti, imparando a osservare e prendere in considerazione anche i particolari più piccoli e insignificanti. Imparai, insomma, ad amare la cronaca nera.
La mia prima firma, se la memoria non mi tradisce, apparve nel 1988 su di un periodico locale, il Diario di Sesto San Giovanni. Ancora oggi ricordo l’emozione della corsa in edicola, le pagine che volavano alla ricerca di quelle tre piccole parole “di Milo Infante” che facevano la differenza tra hobby e professione, vero spartiacque tra i sogni di un ragazzino e le speranze di un adulto. A scarso di equivoci, il Diario di Sesto non pagava i suoi giovani collaboratori. L’accordo, di reciproca soddisfazione, prevedeva che, in cambio dell’onore della firma e dell’esperienza sul campo, nulla fosse dovuto a noi giovani galoppini. Ancora oggi ringrazio per quell’esperienza così formativa (e i miei genitori per avermi mantenuto).
Passano gli anni e nel 1991 grazie ad una segretaria di redazione con cui mio padre aveva lavorato molti anni prima, riesco ad ottenere un colloquio con Giuseppe Botteri, allora direttore de “La Notte”, ultimo dei giornali del pomeriggio ad essere ancora in edicola. Cesare Lanza se ne era appena andato, portandosi via alcuni tra i cronisti più bravi e anche qualche collaboratore volenteroso. Quelli rimasti erano per lo più stanchi e demotivati, qualcuno ormai prossimo alla pensione, molti in cerca di una nuova occupazione. Tutti egualmente preoccupati che il giornale, che navigava in pessime acque, potesse chiudere da un momento all’altro o sostituire redattori e collaboratori storici che potevano ambire ad un’assunzione magari facendo causa, con altri giovani e senza diritti acquisiti come il sottoscritto.
Il sentimento poco amichevole nei confronti del sottoscritto e degli ultimi arrivati si manifesta immediatamente, giusto il tempo di sederci in una delle tante scrivanie vuote e di essere altrettanto velocemente sfrattati e relegati in archivio. Scrivere il mio primo pezzo per le pagine di Milano si rivelò più arduo del previsto, non tanto per la complessità della notizia (si trattava di un clochard trovato morto per il freddo) quanto perché la macchina da scrivere dell’archivista (i computer non c’erano) aveva il nastro completamente esaurito. Facile, direte voi, bastava farsene dare uno nuovo. Bravi. In un giornale in crisi dove nessuno aveva voglia di aiutarti, trovare della cancelleria era un po’ come beccare il gratta e vinci giusto.
Ad ogni modo, per quanto in disgrazia, la Notte è stata una buona palestra, soprattutto per scoprire il lato “oscuro” del mondo del lavoro, quello che ai giovani è per lo più sconosciuto e inevitabilmente fonte di grandi delusioni.
La prima porta in faccia la presi in occasione del delitto Klinger, il medico milanese freddato con tre colpi di pistola il 18 febbraio 1992 alle 7 e mezza del mattino sotto la sua abitazione. Pochi minuti dopo il fatto la telefonata del capo cronista mi trova stranamente pronto per quell’ora del mattino, e sono forse il primo dei cronisti a raggiungere via Muratori. Il titolare della “nera” de La Notte era come di consueto risultato irreperibile e quindi toccava a me “coprire” il fatto. Riesco a parlare con gli equipaggi delle volanti, con i vicini di casa, persino con la testimone che, pur non avendo visto nulla, risulta essere l’unica persona che si è accorta degli spari. Quando ho finito sono ormai le 9 e mezza del mattino e sul posto ci sono tutti i colleghi degli altri giornali, “Ciccio” Presicci de Il Giorno, Fabrizio Gatti del Corriere, Luca Fazzo di Repubblica. Verso le 11 e mezza, quando io ho già scritto il mio articolo, finalmente, si appalesa in redazione anche il “nerista” de La Notte. I testimoni hanno già raccontato tutto mille volte e non hanno più voglia di parlare, gli investigatori capiscono che non sarà un caso facile (ancora oggi il killer di Klinger non ha un nome) e si chiudono a riccio e così, con ancora il segno del cuscino sulla faccia, il collega si presenta a rapporto dal capo cronista con il taccuino vuoto e il musetto imbronciato. Rivendica la titolarità del settore, contesta il fatto di essere stato scavalcato da un collaboratore poco più che ragazzino, il membro del cdr lo spalleggia, il capo cronista cerca di difendere il mio lavoro ma in breve è costretto a cedere. Il mio pezzo finisce nel cestino. Il giorno dopo il confronto con gli altri giornali è impietoso, se ne accorge anche il “nerista” e, come se fosse colpa mia, mi dichiara guerra. Da quel momento niente più cronaca nera e vengo “trasferito” alla terza pagina del giornale, quella dedicata agli speciali. Speciali come la lezione che, di lì a breve, avrei imparato a mie spese.
Dal punto di vista economico una svolta: a seconda della complessità degli articoli i compensi potevano arrivare anche a 300mila lire per un’intera pagina, un sacco di soldi rispetto a quanto venivano pagati gli articoli in cronaca. Nonostante questo però la mancanza della “nera” si fa sentire, mi manca l’adrenalina e la corsa alla notizia, al “buco” da tirare ai colleghi. Il giornale, come se non bastasse, continua a perdere copie. Si affaccia all’orizzonte Mani Pulite, su Craxi fioccano avvisi di garanzia. La piazza ha voglia di gogna, a Roma le monetine volano fuori dall’hotel Raphael ma Botteri, socialista tutto d’un pezzo, all’ennesimo avviso di garanzia al leader titola “Campagna contro Craxi”. Una dimostrazione d’affetto per il leader ormai in caduta libera ma quasi un epitaffio per il giornale. Capisco che è il momento di guardarsi attorno e riesco a farmi ricevere dal mitoco Rossi, il responsabile della segreteria di direzione de Il Giorno. Una persona perbene, come ne ho incontrate poche fino a questo momento. Il nuovo direttore, Paolo Liguori, sta cercando collaboratori per ringiovanire il giornale, e mi propone una collaborazione nelle pagine della cronaca di Milano. L’ambiente è sereno, il capo cronista un professionista serio e rispettato, i colleghi tutto sommato cordiali. Se non fosse troppo scontato verrebbe voglia di dire “come passare dalla notte al giorno”. Mi mettono alla prova con una serie di inchieste nei quartieri, la supero tutto sommato brillantemente. L’unico neo sono i compensi, davvero esigui. Un articolo pubblicato “vale” circa 30 mila lire, con una previsione di due o tre la settimana. A Il Giorno mi vengono in soccorso, la soluzione è semplice: posso tranquillamente continuare a lavorare per gli speciali de La Notte, di fatto sono un collaboratore, libero professionista e i due giornali non sono in concorrenza. In pratica in quello del pomeriggio avrei potuto continuare a dedicarmi agli approfondimenti e in quello della mattina alle inchieste di cronaca che tanto mi stavano a cuore. Mi sembra che il ragionamento non faccia una grinza e da Piazza Cavour, dove aveva sede Il Giorno, percorro via Vitruvio a passi veloci verso la redazione de La Notte. Felice e al tempo stesso un po’ preoccupato, ricordo come se fosse oggi l’ingresso nella stanza del caposervizio responsabile degli speciali. Un giornalista a fine carriera, mai visto sorridere, mai un’espressione di serenità sul volto. A dispetto del cognome era uno sempre incazzato nero, da far sembrare “musetto imbronciato” una cinciallegra. Gli espongo i fatti, l’offerta de Il Giorno, la disponibilità del capocronista di accettare la “doppia firma” per consentirmi di guadagnare qualche cosa. Uno degli aspetti inquietanti dell’avere un capo con la perenne espressione di quello a cui rimangono meno di cinque minuti di vita persino di fronte ad un tredici al totocalcio è che sai di dover interpretare a tuo rischio e pericolo i suoi veri sentimenti. E in quell’occasione sbagliai di grosso.
Il colloquio, come sempre di breve durata, mi lasciò con una falsa sensazione di sicurezza. “L’allegrone” si era lasciato andare a nefasti commenti sulla direzione de La Notte, pronosticando una vita breve per il giornale e un destino di miseria per noi tutti, in primis proprio i collaboratori come il sottoscritto, destinati ad essere scaricati senza nessuna tutela o speranza di assunzione. “Fai bene, accetta al volo l’offerta. Qui non hai futuro”. E le sue ultime parole, “Per me non c’è problema, puoi continuare a collaborare alle mie pagine, hai la mia benedizione”.
A vent’anni sei propenso a fidarti del prossimo e quando uscii dalla sua stanza mi sentii sollevato e sicuro di aver fatto il mio dovere. Una sensazione destinata a durare lo spazio di poche settimane, giusto il tempo ricevere una telefonata dalla segreteria di Botteri e di presentarmi a rapporto in via Vitruvio. Quello che mi trovai di fronte era un direttore stanco e provato, forse colpito per una sorta di osmosi dalle vicissitudini giudiziarie di Craxi. In una cartelletta sulla sua scrivania c’era un ritaglio de Il Giorno della settimana prima, un mio articolo per la cronaca di Milano che tutti i quotidiani erano stati costretti a riprendere, compresa La Notte. Si vedeva che Botteri era realmente dispiaciuto e aveva vissuto quasi come un tradimento il “buco” che gli avevo mio malgrado rifilato. Non riusciva a spiegarsi per quale motivo non avessi ritenuto opportuno comunicargli che ero passato ad un altro giornale dimostrando così di ripagare con poca correttezza la sua disponibilità. Più stupito di lui obiettai che avevo da tempo chiesto al mio caposervizio l’autorizzazione a poter collaborare con Il Giorno, ottenendo non solo il permesso ma addirittura una vera e propria benedizione e che nulla mi aveva fatto supporre che non fosse stato debitamente informato.
Credo di avergli letto negli occhi, in quel momento, l’ennesima presa d’atto di essere circondato da persone per così dire poco affidabili. I momenti che seguirono fanno parte, nei miei ricordi, di quel patrimonio prezioso chiamato “esperienza di vita”. Chiamato a confermare le mie parole il caposervizio “allegrone”, senza neppure avere il coraggio di guardarmi in faccia, negò di essere stato informato della mia collaborazione a Il Giorno e di averlo appreso unicamente per aver letto la mia firma in calce ad alcuni articoli. Provai a protestare cercando di contenere lo sdegno che in quel momento mi pervadeva completamente ma non ne ebbi il tempo. Botteri in men che non si dica congedò il caposervizio rifiutandosi di ascoltare un altro collaboratore che aveva assistito al famigerato incontro. Alzandosi dalla sua scomoda poltrona mi mise alla porta cercando, mentre di fatto mi licenziava, la mia comprensione. “Spero tu capisca”, furono le sue esatte parole, “che in questo momento non posso mettermi contro un caposervizio per difendere un collaboratore, a prescindere dal fatto che possa quest’ultimo avere ragione o meno”.
A distanza di più poco più di un anno dalla pubblicazione del mio primo articolo mi ritrovai in via Vitruvio con in tasca la prima vera grande delusione che il mestiere che ho amato sin da bambino aveva in riserbo per me. La prima, certo non l’ultima.
Nei mesi che seguirono le uniche due notizie che giunsero dai miei ex colleghi non furono certo positive. Il caposervizio “allegrone” un bel giorno si presentò in redazione irriconoscibile per un palo della luce preso in piena faccia (giustificazione che non mancò di lasciare qualche dubbio tra le persone che affermavano di conoscere bene le sue abitudini e il sottoscritto felice e riconoscente nei confronti dell’efficientissimo sistema di illuminazione milanese) e, in seguito, la chiusura del giornale.
La mia vita professionale ripartiva quindi da piazza Cavour.
Direttore de Il Giorno era, come detto, Paolo Liguori, e il quotidiano si affidava a lui per un rilancio troppe volte annunciato ma mai realizzato. La storia insegna che tutte le volte in cui lo Stato risulta azionista di maggioranza (vedi Alitalia e Rai) la politica mette lo zampino nella gestione e improvvisamente lievitano a dismisura i costi, gli sprechi, le assunzioni. Il Giorno non faceva certo eccezione: la sua struttura contava decine da vicedirettori, capi redattori centrali, per non parlare di redattori assunti solo per volontà politica e perché negli anni ’70 fare il giornalista era considerato, al contrario di oggi, un lavoro prestigioso, certamente più del bancario o dell’impiegato alle Poste. Per noi collaboratori un direttore prestigioso poteva significare un aumento delle copie vendute e, con un po’ di fortuna, l’assunzione.
A differenza de La Notte la struttura del quotidiano di piazza Cavour era molto più complessa. In oltre un anno di collaborazioni non credo di essere mai riuscito ad incontrare Liguori, protetto com’era da una efficientissima segreteria. Solo una volta, in prossimità del Natale, ebbi modo di sbirciare nell’anticamera del suo ufficio, attratto da una quantità impressionante di pacchi, pacchetti, regali di ogni sorta che erano stati accatastati dai solerti impiegati. Fu quello del 1992 l’ultimo Natale all’insegna dell’opulenza. Con l’esplodere di tangentopoli ben presto la magnificenza lasciò il posto ad una (apparente) morigeratezza, e la casse di champagne furono velocemente sostituite da regali sempre più modesti.
Dell’esperienza al Giorno non ho che ricordi positivi. La cronaca era diretta da un bravo capocronista, molto attento a valorizzare i collaboratori sfruttandone le idee e la loro voglia di correre senza però urtare la suscettibilità dei redattori, per cui potei sbizzarrirmi sulla cronaca di Milano coprendo tutti quei servizi che ai miei colleghi assunti potevano risultare “scomodi”, perché magari riguardavano quartieri periferici e pericolosi oppure notizie considerate “di routine”. Per quanto potessero però correre i collaboratori niente pareva però arrestare l’emorragia di copie che aveva colpito il giornale, e la linea editoriale scelta da Liguori di forte criticità nei confronti dell’inchiesta di Mani Pulite non pagava certo in un momento storico in cui la gente per ottenere miracoli non si rivolgeva più a Medjugore ma a Borrelli e Di Pietro. Occorre dire che, col senno di poi, molte delle critiche di Liguori si rivelarono fondate, ma in quel particolare momento storico certo non pagarono in termini di crescita del giornale che già nel settembre del 1993 era pronto a lasciare per la direzione di Studio Aperto. [continua presto…]